Quella che segue è la mia traduzione dell’articolo di Kory Grow “Depeche Mode’s Dave Gahan on Urgent New ‘Spirit’ LP, David Bowie Influence” pubblicato su Rolling Stone il 2 febbraio 2017.

Dave Gahan dei Depeche Mode parla di Spirit, l’album di prossima uscita e dell’influenza che David Bowie ha esercitato sul gruppo. Foto di Anton Corbijn

«Viviamo in un’epoca di vero cambiamento», dice Dave Gahan, il cantante dei Depeche Mode, l’incarnazione dell’intensità, vestito di nero da capo a piedi. «Più vado avanti con gli anni, più le cose che accadono nel mondo mi colpiscono. Penso ai miei figli e a quello che vedranno da adulti. Le ultime elezioni hanno toccato profondamente mia figlia Rosie. Addirittura piangeva e io sono rimasto molto sorpreso.»

È una giornata nuvolosa di metà gennaio. Il cantante cinquantaquattrenne dà una forchettata alle tagliatelle nel ristorante di un hotel nel centro di Manhattan, dove vive da circa una decina d’anni. Nonostante la sua preoccupazione per lo stato del mondo, è di buon umore e riesce a guardare a se stesso con obiettività. «Io e Martin [Gore] viviamo in America, perciò quello che succede ci tocca molto», afferma. «Martin mi ha detto: “So che alcuni penseranno che siamo rockstar ricche che vivono nel loro villone a Santa Barbara e che se ne fregano di tutto. È vero che siamo fortunati, ma questo non vuol dire che smettiamo d’interessarci a quello che succede nel mondo. In realtà mi tocca parecchio”. E io gli ho detto: “Ti capisco, la penso come te”.»

Questa preoccupazione ha pervaso Gahan e gli altri Depeche Mode mentre scrivevano Spirit, l’album che sarà pubblicato il 17 marzo. Molte delle 12 canzoni dell’LP se la vedono direttamente con questo senso generale di weltschmerz, di dolore cosmico, che ultimamente attraversa il mondo. Nonostante i Depeche Mode siano diventati superstar per una legione di scontenti e disillusi abbigliati di nero con brani seri sulla compassione universale (“People are people”) e altre rivelazioni più intime (“Enjoy the Silence”, “I Feel You”), le nuove canzoni sembrano un diverso capitolo del gruppo. «Non lo definirei un album politico», dice Gahan, «perché non ascolto la musica in maniera politica. Certamente parla dell’umanità e del nostro posto al suo interno.»

Canta di bigotti che «riportano indietro la storia» in “Backwards”, incita audacemente al cambiamento in “Where’s the Revolution?” («Chi prende le decisioni», canta, «tu o la tua religione?») e offre uno sguardo più intimista nella meditativa “Poison Heart”. Queste canzoni hanno tinte dark e strutture complesse, sound freddi e caldi allo stesso tempo, musicalmente ricordano non solo l’era di Violator, ma appaiono anche come un’estensione dell’ultimo album del 2013, Delta Machine.

La consapevolezza di Gahan e Gore sulle idee condivise riguardo agli eventi mondiali si è manifestata subito quando si sono ritrovati l’anno scorso con Andy Fletcher per cominciare a realizzare il nuovo album. Dopo avere esposto tutti i loro pensieri, hanno visto un filo conduttore. «Abbiamo intitolato l’album Spirit perché ci siamo chiesti: “Dov’è finito lo spirito?” oppure “Dov’è lo spirito nell’umanità?”», dice Gahan. «Avevamo anche pensato a Maelstrom, però suonava troppo heavy metal.»

Hanno chiamato il produttore James Ford, la cui collaborazione con Florence and the Machine, Arctic Monkeys e Simian Mobile Disco aveva colpito il gruppo. Ha aiutato i musicisti a ritrovare una visione comune. A parte qualche disaccordo fra Gahan e Gore che Ford ha sistemato («Abbiamo messo in chiaro le cose», aggiunge Gahan con una risata, «è stato un momento emotivamente intenso»), il processo di registrazione è stato relativamente veloce e senza difficoltà, con sedute nello studio di Gore a Santa Barbara e a New York.

Il gruppo è in procinto di pubblicare il primo singolo firmato da Gore “Where’s the Revolution?”. Il pezzo cresce lentamente, con qualche synth sfocato, e serve da chiamata alle armi, nel quale Gahan canta: «Il treno sta arrivando/Salite a bordo», insieme alla domanda del titolo. «Martin l’ha scritto in modo molto sarcastico, all’inglese», afferma Gahan.

È uno stato d’animo che continua in un’altra canzone di Spirit, “Backwards”. Si apre con Gahan che canta: «Siamo i bigotti/Non permettiamo/Non rispettiamo/Abbiamo perso il controllo». Prosegue rimproverando duramente la «mentalità da cavernicoli» di alcune persone e il modo in cui altri «si sentono vuoti dentro», fra un tamburellare di tastiere e ritmi martellanti, con il coro di Gore a completamento. «Se vogliamo che le cose cambino, se vogliamo una rivoluzione, dobbiamo parlarne e interessarci a quello che succede nel mondo», dice Gahan. «A quanto pare a Londra sta accadendo il contrario. Sembra quasi che stiamo andando in un’altra direzione e credo che Martin volesse esprimerlo.»

Questa tematica risuona anche in un’altra canzone scritta da Gore, “So Much Love”, un pezzo più ottimistico ed elettronico che parla dell’amore che tutti hanno dentro di sé. «Abbiamo tanto amore dentro di noi, ma abbiamo paura di attingere a quell’amore e a usarlo», sostiene Gahan. «È una cosa un po’ alla John Lennon: “Pace e amore, amico”.»

Sebbene Gahan veda un collegamento con i Beatles, la canzone è lontanissima dai Fab Four, con il suo miscuglio denso e rumoroso di tastiere, la drum-machine e un’inquietante parte di chitarra. Gahan sostiene che quella canzone, musicalmente, è molto più vicina ai primissimi Depeche Mode.

«Fra il 1979 e ’80 facevamo concerti di venticinque minuti nei quali io scrivevo dei puntini sulla drum-machine e alzavo e abbassavo per velocizzare o rallentare», ricorda Gahan. «Era un muro di suono. Attaccavamo tre tastiere alla drum-machine e tre microfoni, per Vince [Clarke], Martin e per me, così ottenevamo armonie in tre parti e una drum-machine molto distorta. [“So Much Love”] mi ricorda anche i primi lavori elettronici di Tuxedomoon e Cabaret Voltaire, che facevano canzoni un po’ punk e distorte.»

Gahan nel 1980. «Era un muro di suono», dice dei primi show dei Depeche Mode. Foto di David Corio/Michael Ochs Archives/Getty

Invece, nella ballata “Poison Heart”, il sound è opposto. Un pezzo particolarmente orecchiabile ed eufonico che Gahan ha creato con il batterista Christian Eigner e il tastierista Peter Gordeno. «Mi hanno mandato una parte di chitarra, aveva qualcosa di Muscle Shoals», dice Gahan. «Evocava un’atmosfera particolare e avevo una melodia in mente.» Comincia con una lenta marcia funebre nello stile di “I Put a Spell on You” di Screamin’ Jay Hawkins e cresce fino a un bridge alla Beatles e giusto un pizzico di chitarra rumorosa. Gore, che secondo Gahan «non è un uomo di molte parole riguardo alle canzoni degli altri», ha definito “Poison Heart” la migliore canzone mai scritta da Gahan.

«Hai il veleno nel cuore», canta sommessamente all’inizio della canzone. Più avanti, prosegue: «Sai che è ora di chiudere/Resterai sempre solo», ma Gahan dice che non è da intendersi come una canzone di rottura.

«Stavo guardando il telegiornale e scrivevo della mia incapacità di relazionarmi per davvero con un altro essere umano», spiega. «Devo avere qualcosa che non funziona, forse ho del veleno nel cuore, o qualcosa di simile. È stato divertente giocare con quest’immagine, poi mi sono spostato sul piano materiale: avidità, lussuria e bramare qualcosa, fregandosene di tutto. Volevo rompere con me stesso, cercare di evolvermi, rompere con vecchie idee che funzionano nella mia mente, ma non nella realtà. Per fortuna, non mi riferisco al rapporto con mia moglie.»

Ride, mentre dà una forchettata alla pasta, e dice che “Poison Heart” completa un’altra canzone dell’album che Rolling Stone non ha avuto modo di ascoltare, intitolata “Worst Crime”. «Il testo di “Poison Heart” è più che altro un dialogo interiore, ma “Worst Crime” guarda all’esterno», afferma. «Bisogna portare il cambiamento. Devi fare qualcosa di diverso o cambiare comportamento. Possiamo discutere di qualsiasi cosa fino a diventare paonazzi, ma a un certo punto bisogna agire, anche se a volte non è molto chiaro in che modo. Io credo che le persone siano sostanzialmente buone, ma le informazioni che ci vengono date ci deformano e di conseguenza le nostre azioni sono dettate dalla paura.»

Gahan ha espresso quest’opinione in un’altra canzone dell’album che s’intitola “Cover Me”, che descrive come una canzone narrativa. «Parla di una persona che va su un altro pianeta per poi scoprire, con suo enorme sconforto, che è uguale alla Terra», spiega Gahan. «È un altro pianeta, ma alla fine è identico. Non riesce a scappare da se stesso. Se vuole che le cose cambino, deve attuare lui stesso un cambiamento.»

Se questa premessa ricorda David Bowie, è soltanto perché l’uomo delle stelle ha influenzato profondamente Gahan e Gore per tutta la loro carriera. «Quando Bowie è morto, siamo rimasti impietriti», dice Gahan. «C’era un legame personale. È stata una perdita immensa.»

Gahan ricorda di avere pianto, nel gennaio dell’anno scorso, quando ha saputo della morte di David Bowie. Si era abituato a vedere Bowie in ambienti sociali sorprendentemente normali, le figlie di Gahan e di Bowie hanno circa la stessa età e frequentano la stessa scuola. A volte, Gahan chiacchierava con Bowie alle riunioni scolastiche. «Era molto diverso dal David Bowie che conoscevo da ragazzo, che adoravo e col quale ho vissuto indirettamente», racconta. Era diventato un suo fan da adolescente guardando Top of the Pops e si è attaccato all’androginia di Bowie perché a sua madre non piaceva. A sedici anni ha messo insieme un po’ di soldi («Sono sicuro di avere rubato qualcosa e di averlo rivenduto», dice) per andare a vedere Bowie esibirsi all’Earls Court di Londra nel 1978 e secondo lui, l’album live doppio, Stage, registrato durante quel tour, è «una sorta di tranquillante», un Bowie al quale ricorrere in caso di bisogno.

«Avevo visto la notizia ma è stato soltanto quando mia moglie mi ha detto che era morto che sono scoppiato a piangere», ricorda Gahan. «Mia figlia è venuta da me ed entrambe mi hanno abbracciato. Ero davvero sconvolto. Sentivo un enorme senso di vuoto. Il mio più grande rammarico era di non averlo fermato una delle volte che l’avevo visto passare per potergli dire: “Sai, David, ogni tanto ci incontriamo ma non ti ho mai detto quanto la tua musica abbia significato per me e quanto sia ancora importante”.»

Gahan e Bowie con Serj Tankian dei System of a Down nel 2002. «È stata una perdita immensa», dice Gahan della morte di Bowie. Foto di Kevin Mazur/WireImage/Getty

Per rimediare, i Depeche Mode hanno reso omaggio a Bowie in un concerto speciale registrato di recente nel parco di High Line a New York. L’hanno filmato, ma senza la presenza del pubblico, includendo alcune canzoni da Spirit, con una drum-machine, Gore alla chitarra, coronando l’esibizione con una cover di “Heroes”. «Ero così commosso che a malapena sono riuscito a contenermi», dice Gahan. «Martin ha ascoltato “Heroes” dopo il missaggio e mi ha detto: “Wow, sai che è venuta proprio bene” e io ero d’accordo con lui.»

Anche se i Depeche Mode non hanno ancora deciso in che modo distribuire questo filmato, Gahan è ansioso di far vedere al pubblico tutto il concerto, in particolare “Heroes”. Nel frattempo, sta già ritornando all’idea di esibirsi dal vivo e diffondere alla gente il nuovo messaggio di consapevolezza proposto dalla band. Secondo una sua stima, il gruppo ha già venduto oltre un milione di biglietti per alcune decine di concerti negli stadi europei che si terranno fra qualche mese, mentre stanno ancora pianificando il tour negli Stati Uniti. Le prove cominceranno a metà febbraio.

Ma l’entusiasmo di Gahan è rivolto in particolare all’interesse immediato suscitato dal prossimo tour europeo, poiché molte date sono andate sold out ancor prima della pubblicazione del nuovo singolo. «Abbiamo lottato molti anni per farci sentire e per ottenere rispetto», dice. «Alcune recensioni dei nostri album passati sono state particolarmente dure. E quindi pensi: “Queste persone proprio non ci capiscono. Non capiscono.”»

Tuttavia, nelle ultime quattro decadi, i Depeche Mode hanno raggruppato una fan base affezionata, che si è riproposta anche quando Gahan ha lavorato al progetto collaterale con il team dei Soulsavers. Rich Machin, uno dei componenti del gruppo, gli ha confessato che i dischi dei Depeche Mode, come Violator e Songs of Faith and Devotion, erano fra i suoi preferiti quando aveva tredici anni.

«Per lui erano importanti come Diamond Dogs e Ziggy Stardust lo erano per me, gli album di quando te ne stai in camera tua e ti chiedi perché non riesci a integrarti nel resto del mondo», dice Gahan. «A quell’età facevo questo con David Bowie. Avevo trovato in lui una persona che riuscivo a capire, mi faceva sentire parte del suo mondo, quando mi sentivo alienato. Per questo credo che i Depeche Mode attirino tante persone. In qualche modo è confortante sapere che non sei solo. Naturalmente non sei solo, nessuno di noi è solo. Ma la musica è quella cosa che attraversa tutti i confini e unisce le persone, per quanto strambe siano.»

Un sentimento che è risuonato anche l’anno scorso quando è arrivato l’annuncio che i Depeche Mode erano stati nominati per accedere per la prima volta alla Rock and Roll Hall of Fame, anche se alla fine non ci sono riusciti. «Non facciamo parte della struttura, e ne sono orgoglioso», afferma. «Spicchiamo per essere un po’ strambi. Sapevamo che non saremmo riusciti a entrare nella Rock and Roll Hall of Fame, ma qualcuno ha scritto: “Sono un gruppo che si mette l’eyeliner, scrive canzoni depravate su argomenti contorti, strani e deprimenti”.»

«L’ho preso come un gran complimento», continua. «Perché siamo un po’ strambi e abbiamo sempre attratto gli strambi che sono là fuori, gli strambi nel mondo. I nostri fan e le persone come noi sono un manipolo che non si sente a proprio agio a bazzicare con gli altri. Siamo un po’ impacciati, un po’ nerd, un po’ diversi. Ci siamo trovati e siamo diventati una squadra.» Ride mostrando il proprio orgoglio. «Ed è una squadra enorme adesso.»