La settimana scorsa ho visto Tredici (13 Reasons Why), incuriosita dal clamore che ha suscitato. La serie è approdata su Netflix il 31 marzo 2017 e i protagonisti sono Clay Jensen (Dylan Minnette) e Hannah Baker (Katherine Langford). La serie è tratta dal romanzo Tredici di Jay Asher, pubblicato nel 2008 da Mondadori (traduzione di Stefano Borgotallo).

Poster della serie Tredici (13 Reasons Why)

Sebbene l’idea di fondo sia originale – prima di suicidarsi, una ragazzina invia sette audiocassette alle tredici persone che lei ritiene responsabili della sua morte – ho trovato la serie di una banalità e di una superficialità imbarazzanti.

Le mie considerazioni, fra serie e romanzo

A mio avviso, il problema più grave è che Hannah, la ragazzina suicida, non suscita un briciolo di empatia. Anzi, è proprio antipatica e da prendere a sberle. In alcuni punti chiave della storia le sue azioni sono stupide e irrazionali. Sai che un tuo compagno di scuola è un violento che ha fatto del male a una tua amica? Ebbene, che aspetti a denunciarlo? E invece no, non solo non lo denuncia, ma i suoni della festa che lui dà a casa sua l’attraggono come «un canto di sirena».

L’aspetto più sconcertante è che il suicidio di Hannah non è l’ultimo atto disperato di una lunga depressione. No, è un atto di vendetta contro le persone che l’hanno trattata male. Altrimenti perché scomodarsi a registrare le cassette per i responsabili con un tono fra il sarcastico e sprezzante? Il suicidio per vendetta è una motivazione che non sta in piedi.

Clay (Dylan Minnette) e Hannah (Katherine Langford)

In secondo luogo, i dialoghi sono spesso noiosi e vuoti. Per esempio: «Pensi a Hannah?», «Secondo te?», dialoghi del genere non comunicano nulla e devono essere banditi. Molte scene potevano essere più brevi o addirittura tagliate del tutto. La storia non sempre è credibile (per esempio, i genitori vedono il figlio tornare a casa tumefatto e si preoccupano a malapena) e vuole affrontare tante questioni delicate – il cyberbullismo, la violenza sessuale, il suicidio – senza approfondirne neppure una. Alcuni personaggi ricadono nei soliti cliché: il giocatore di baseball ricco e spregiudicato, la cheerleader popolare, il ragazzo impacciato ma sensibile, per dirne alcuni.

Copertina di Tredici di Jay Asher

Finite le tredici puntate ero delusa, ma mi sono detta: «Proviamo a leggere il libro dal quale è tratta la serie, magari è meglio». E invece, sorpresa, il libro è illeggibile. Non c’è suspance, lo stile è sciatto e sembra scritto da un bambino. Va bene che parla di ragazzini, ma poteva essere più curato. Peraltro, il problema dei personaggi cliché bidimensionali si ritrova anche nel romanzo.

Non avrei mai pensato di dirlo ma la serie, con tutte le sue pecche, è meglio del libro. Poi, se vogliamo aggravare il tutto, credo che il messaggio trasmesso da libro e serie sia quanto di più diseducativo e fuorviante per gli adolescenti.

Perciò la serie è deludente, il libro pure, mi rimane una domanda: perché prodigare tutti questi sforzi in un prodotto così mediocre? Non credo che avrò mai una risposta. In ogni caso, la serie è stata già riconfermata per la seconda stagione. Io non credo che la guarderò.