Questa è la mia traduzione di “Tell Me About It: Dave Gahan – “‘Why is your music so depressing?’ is a really lame question” di David Zammitt pubblicato su Loud and Quiet il 26 aprile 2017.


Il cantante dei Depeche Mode parla di concerti schifosi, di dipendenza da sostanze e della morte scampata per due volte.

Dave Gahan si è piazzato nel seminterrato dell’elegante Bulgari Hotel a Knightsbridge. Mentre aspetto fuori dalla sua stanza nel purgatorio dei giornalisti musicali, in attesa di un’intervista insieme a un altro periodico, mi dicono che non dovrebbe mancare molto. Invece, purtroppo, a Dave piace talmente tanto chiacchierare che vuole continuare a farlo. Forse andremo d’accordissimo, penso.

Quando infine mi fanno cenno di entrare, Gahan mi dà il benvenuto nella sala riunioni che per quella giornata è diventata il suo ufficio. È cordiale, prodigo di sorrisi, e mi offre persino un frullato. Di colore verde radioattivo, è un segno del viaggio di Gahan dai giorni oscuri di fine anni ’80 e, be’, buona parte degli anni ’90. Bisogna dire che le richieste particolari di un uomo che è sopravvissuto alla dipendenza da eroina e a un tumore alla vescica oggi sono un po’ diverse. Con i capelli lisciati all’indietro, i baffetti ben curati e un anello d’argento a forma di teschio posato sulla nocca centrale, è difficile identificarlo con il ragazzo diciannovenne di Epping vestito in abiti troppo larghi che balla nervosamente in “Just Can’t Get Enough”.

Naturalmente, parecchia acqua ben documentata è passata sotto i ponti da quando Gahan e i Depeche Mode sono arrivati con Speak & Spell nel 1981, album che ha stabilito i criteri del synthpop. Quattordici album in studio sono di per sé una conquista piuttosto solida, ma quando si conosce il contesto delle difficoltà superate per poterci arrivare, l’impresa suscita maggiore interesse. Fra salute cagionevole, abuso di sostanze e un paio di scontri con la legge, i Depeche Mode sono riusciti in qualche modo a restare uniti. Nonostante gli alti caotici e i bassi di fiacca creativa, la pubblicazione dell’ultimo LP, Spirit, prosegue la marcia di almeno un album ogni quattro anni, negli ultimi trentacinque. Incredibilmente, i Depeche Mode sono diventati una delle forze più affidabili della musica britannica.

Gahan parla in staccato, con molte pause e frasi brevi sparate a raffica, e svolazza di argomento in argomento. Avrei potuto lasciare a casa il mio ordinato foglio A4 con le domande, perché dico a malapena una parola. Saltando a rotta di collo nei primi cinque minuti dal recente concerto alla Barrowlands di Glasgow ai pregi del teatro e all’etica dietro il sound “deprimente” dei Depeche Mode, a 54 anni Gahan è traboccante di energia. Anche se può essere dura restare al passo con lui, la passione di Gahan è il filo conduttore che tiene unita la chiacchierata.

Dave Gahan. Foto di Anton Corbijn

La Barrowlands è un luogo vecchio, sporco e puzzolente

«Non ne sono rimasti molti di luoghi simili. Abbiamo suonato là per il festival di BBC 6 Music, ma ci avevamo già suonato agli inizi degli anni ’80 – qualcuno mi ha detto che era il 1984. Ricordo che a suo tempo era piuttosto ondeggiante. Il palco si muove un po’ perché il pavimento si muove. Perciò, quando comincia…

È stato divertente fare quel concerto la settimana scorsa, che è durato un’oretta. Più breve delle due ore di concerto che facciamo di solito. Bobby Gillespie mi ha scritto un paio di SMS dicendomi: “Durata perfetta”. Per esibirsi, un’ora è la durata perfetta.

Abbiamo trascorso due bei giorni a Glasgow. Se ti trovi in Inghilterra, Scozia o Irlanda e se c’è bel tempo, riesci davvero a vedere la bellezza di questi luoghi. E adoro la gente di quelle parti. Le persone in albergo e per la strada, ovunque. Brava gente!»

“Perché la vostra musica è così deprimente?” è una domanda davvero sciocca

«Di recente ho visto la pièce Buried Child di Sam Shepard. Adoro tutte le opere di Sam Shepard. Solitamente sono ambientate nel cuore dell’America e mostrano com’è realmente, non il sogno americano. Buried Child parla di un bambino indesiderato che è finito sepolto nel giardino e perseguita i familiari, spiritualmente. Perciò, è il tormento costante in qualunque cosa facciano nelle loro vite ubriache. Alcuni dicono che è una storia miserabile, ma le storie come questa, secondo me, sono la vita vera.

Una delle domande alle quali ho risposto un’infinità di volte è questa: “Perché la vostra musica è così negativa?”. Innanzitutto è una domanda sciocca, ma la risposta è sempre la stessa: “Be’, secondo me non è vero”. Non l’ho mai percepita così, neppure adesso. Capisco che alcuni degli argomenti siano tetri, musicalmente può essere dark, ma ho sempre sostenuto che se il testo è oscuro e se ci addentriamo in uno strano luogo cupo, c’è anche una melodia, un sound o altro che ti riporta fuori. Come in un buon libro, o in un film, c’è una storia dietro.

Tendo a soffermarmici parecchio. E non c’è niente di male perché ritengo che sia l’unico posto nel quale puoi trovare una luce vera. Devi scavare a fondo, perché in tutte queste stronzate di superficie – questa roba [alza l’iPhone e lo agita] – noi sprechiamo tempo.»

Ci interessano ancora le recensioni

«Certo che ci interessano. Tanto tempo fa, qualcuno mi ha detto che la particolarità delle recensioni è che se credi a quelle positive, devi credere anche a quelle negative. C’è sempre qualcosa di valido in entrambe e comunque sono tutte opinioni.

Ho letto una recensione del concerto alla Barrowlands che mi è piaciuta. Questa persona recensiva l’atmosfera e le sensazioni vissute in quel momento e che cosa ha provato. Ed era incontestabile! Se avesse detto altro su quella serata, per esempio che non gli piacevano le mie scarpe, sarebbe stato ridicolo perché è stata una serata speciale. Ma non va sempre così, credimi!

Capita che la mattina mi diano un giornale mentre partiamo per il prossimo concerto. Magari so che abbiamo fatto uno show di merda la sera prima, che non è andato benissimo. Oppure che era sottotono e qualcuno se n’è accorto. Quindi leggo la recensione e penso: “Ma vaffanculo!”. Non sono tutte gemme. Nel corso degli anni capisci che [a volte] c’è una sensazione speciale, ci scambiamo un’occhiata ed è come se fluttuassimo nell’aria, ma il più delle volte sono nel bel mezzo di una canzone e penso a qualcos’altro. Be’, no, non il più delle volte. Però, spesso e volentieri, verso la fine dello spettacolo, mi domando se in hotel ci sia il servizio in camera.»

Depeche Mode. Foto di Anton Corbijn

Ricordo di avere scagliato sei o sette bottiglie di vino contro il muro perché non potevo bere

«Una volta abbiamo deciso di non andare in tournée ed è stato con l’album Ultra [1997], perché non ero sufficientemente in forma. Ho cercato di convincere tutti del contrario, avevo tante buone intenzioni, però, mettiamola così: dopo sei mesi di registrazione dell’album, dopo un’importante sessione a New York, sono tornato a Los Angeles, è successo un casino e sono finito in galera [Gahan è stato arrestato per essere finito in overdose da speedball al Sunset Marquis Hotel nel 1996]. Perciò è stata un’ottima decisione.

Dopo quell’album abbiamo pubblicato un greatest hits, nel 1998 mi pare. Abbiamo fatto qualche concerto. Per me è stato il migliore e il peggiore tour mai fatto perché non c’ero proprio in nessuna di quelle esibizioni. Era tutto nuovo per me. Non bevevo più alcol e non mi facevo più di droga, ero una sorta di ferita aperta, un fascio di nervi, cercavo di tenere duro finché non ce l’avessi fatta. Non avevo alcun interesse a starmene in viaggio e ho avuto qualche momento critico nei camerini. Ricordo di avere scagliato sei o sette bottiglie di vino contro il muro perché non potevo bere. Erano destinate a me, ma se non potevo berle allora tanto valeva che finissero contro il muro. C’erano anche gli altri della band nel camerino. Dev’essere stato spaventoso, ora che ci penso. Non ero felice all’idea di rimanere sobrio e di doverlo fare per sempre se volevo continuare a vivere. Ormai sono passati quasi vent’anni, cosa di per sé incredibile, anche se il percorso non è stato privo di scossoni. Mi ha davvero aperto la mente, più di quanto potessero fare la droga o l’alcol.»

Fisicamente non riuscivo a cantare per più di cinque minuti

«Ricordo di essere tornato a casa a Los Angeles dopo l’arresto. Ho ricevuto una telefonata – io non ho risposto – da parte di Martin [Gore]. Era indispettito e incazzato per il fatto che eravamo nel bel mezzo della registrazione di un album e io non potevo lasciare Los Angeles per altri due anni. Se mi fossi cacciato nei guai, sarei finito in galera. Perciò hanno continuato a lavorare, hanno creato sessioni apposite per quando sarei potuto uscire dal posto nel quale ero entrato. Ci sono rimasto sei mesi. Ero terrorizzato all’idea di tornare a casa perché sapevo cosa avrei fatto. Ho stretto ottime amicizie laggiù, sono tornato in studio con qualcuno che mi sorvegliava, ma che mi ha salvato la vita.

Non riuscivo a cantare. Dico fisicamente, non riuscivo a cantare per più di cinque minuti. Non era affatto bello. Durante la prima fase di realizzazione dell’album ci sono stati momenti nei quali pensavo di andare bene, ma probabilmente ero sballato. Al microfono pensavo di essere Frank Sinatra, poi mi riascoltavo e dicevo: “Oddio!”. Mi hanno fatto lavorare con una coach vocale, Evelyn. Poiché ero veramente uno stronzo a suo tempo, lei avrebbe lavorato con me solo se fossi andato in chiesa con lei a Los Angeles, in una zona malfamata a Inglewood, in un posto dove lei ogni domenica lavorava con il coro. Diceva: “Vieni con me e canta con il gruppo. Devi far parte di un team!”. Era simpatica e gentile con me, mi ha dedicato un sacco del suo tempo. Mi ha ridato la voce. Alla fine abbiamo completato l’album.»

Mia moglie mi ha chiesto: “Per quale motivo guardi le immagini del tuo tumore?”

«Durante la realizzazione di Sounds of the Universe [2009] non mi sentivo in forma. Ero quasi sempre spossato. Avevo energie a sufficienza per affrontare le sessioni in studio, ma poi tornavo a casa la sera e dicevo a mia moglie che ero stanchissimo. Mi addormentavo alle nove di sera, ma nessuno ne sapeva niente. Poi, quando mi hanno fatto la diagnosi, ho capito tutto.

Ero solito dire a Jen, mia moglie: “Non so se riuscirò a fare questi concerti”. Eravamo ad Atene, avevo un dolore lancinante all’intestino. Sembrava l’intestino, ma non lo era. Quella sera è arrivato il dottore in camerino, cinque minuti prima di salire sul palco. Vomitavo spesso, ma non lo avevo detto a nessuno. C’erano tracce di sangue nelle urine, anche questo non l’avevo detto a nessuno. Pensavo fosse per lo stress e il logorio.

Mi hanno portato di corsa in ospedale e mentre il medico eseguiva l’ecografia ha guardato me e poi lo schermo. Gli ho detto: “So che non aspetto un bambino!”. E lui: “Be’, vedo qualcosa e devo chiamare qualcuno per accertamenti”. Quindi ho detto: “Cosa vede?”. E lui: “Vedo un’ombra”. L’ho sentito dire nei film. Per fortuna c’era un oncologo, mi hanno fatto una risonanza magnetica e mi hanno detto che avrebbero potuto operarmi subito. C’è una sacca nella vescica, poi ancora un’altra sacca in quella interna, e il tumore non era ancora uscito dalle pareti. Era fantastico da guardare! Mia moglie mi ha chiesto: “Per quale motivo guardi le immagini del tuo tumore?”. Secondo me somigliava a un riccio di mare con tutti i tentacoli alieni! Una cosa straordinaria. Ma se non viene diagnosticato e si diffonde negli altri organi, sei spacciato.»

Fingiamo il contrario, ma siamo fottutamente perduti!

«Spirit è più che altro uno sguardo sociale sull’umanità in sé, e siamo proprio perduti. Fingiamo il contrario, ma siamo fottutamente perduti! Questo disco è in parte apocalittico e in parte post-apocalittico. “Cover Me” è post-apocalittica, “Fail” parla del presente, in “Poison Heart” intendo dire che “sei il demonio e lo sappiamo tutti, ma sei tu che hai il potere!”. E poi ci sono canzoni come “Going Backwards” e “Scum” che esprimono il terrore per l’umanità, per noi stessi.

Dov’è lo spirito? Dov’è quello spirito che ci fa interessare a qualcosa? La gente dice: “Per voi è facile parlare, vivete nelle vostre case lussuose”, ma Martin ha detto che anche se abbiamo avuto successo, non significa che smettiamo di preoccuparci di quello che vediamo e percepiamo. Facciamo del nostro meglio. Possiamo ritrarre quello che sentiamo attraverso la musica, l’arte. In fin dei conti, sì, siamo qui per intrattenervi ma magari facendovi riflettere. Non è un disco che vuole imporvi un’idea a tutti i costi. Non siamo mica Billy Bragg.»