Barbara Salardi

"We are all stories in the end. Just make it a good one."

Pagina 2 di 11

Better Call Saul: perché recuperare lo spin-off di Breaking Bad

Si è conclusa da poco la terza stagione di Better Call Saul, lo spin-off di Breaking Bad incentrato su Saul Goodman, l’avvocato intrallazzatore che tirava fuori dai guai Walter White e Jessie Pinkman. La serie è stata creata da Vince Gilligan, già ideatore di Breaking Bad, e Peter Gould. Il primo episodio è andato in onda l’8 febbraio 2015 sulla rete statunitense AMC. La serie ha all’attivo tre stagioni, per un totale di trenta episodi.

Bisogna dire che quando si parla di spin-off c’è sempre una vena comprensibile di scetticismo. In particolar modo se si tratta di Breaking Bad: una serie amatissima e da molti considerata un capolavoro. Lo spin-off può sembrare un tentativo di mungere la vacca grassa che alla fine distrugge un prodotto già di per sé perfetto. Per fortuna questo non è il caso di Better Call Saul. Qui di seguito vi spiego perché recuperare questa serie se ancora non lo avete fatto.

Per godersi Better Call Saul non è necessario avere visto Breaking Bad

La serie si svolge qualche anno prima degli eventi di Breaking Bad. Anche se i personaggi principali sono ripresi dalla serie madre – l’avvocato Saul Goodman (Bob Odenkirk) e il faccendiere/sicario Mike Ehrmantraut (Jonathan Banks) – non è fondamentale avere visto Breaking Bad per apprezzare Better Call Saul.

Mike (Jonathan Banks) e Jimmy (Bob Odenkirk)

Ovviamente i rimandi a Breaking Bad sono tantissimi e in alcuni casi lo spin-off spiega e approfondisce aspetti che nella serie madre erano appena accennati. Tuttavia, il pregio di questo spin-off è che la trama è autonoma e si regge perfettamente sulle proprie gambe senza aver bisogno della serie madre. Naturalmente non mancano i colpi di scena e i momenti di pathos. È evidente che la mano dietro a entrambe le serie sia la stessa: si riconosce la cura maniacale dei dettagli, la scrittura delle scene e dei dialoghi, la fotografia e la regia impeccabili.

I personaggi principali e secondari sono caratterizzati perfettamente

La storia di Better Call Saul segue due strade ben delineate: la prima riguarda Saul, al secolo Jimmy McGill, e le sue vicende con lo studio di avvocati, il rapporto di complicità con la collega e amica Kim Wexler (Rhea Seehorn) e quello più difficile con il fratello Chuck (Michael McKean) e la sua malattia. La seconda strada è quella che segue Mike ed è legata alla criminalità: gli scontri con la banda di narcotrafficanti guidati da Hector Salamanca (Mark Margolis) e il suo collaboratore Ignacio “Nacho” Varga (Michael Mando).

Jimmy (Bob Odenkirk) e Chuck (Michael McKean)

In Breaking Bad Saul era più che altro una figura comica di poco spessore. Invece, in Better Call Saul, Jimmy diventa un personaggio complesso: è un uomo in perenne conflitto con il fratello, che cerca di adeguarsi a un mondo che non ha niente di buono e che lo respinge in continuazione. Mike era già un personaggio ben caratterizzato: laconico e pragmatico, era circondato da un alone di mistero e suscitava ammirazione. In questa serie si aggiungono dettagli che lo approfondiscono di più e lo rendono ancora più amato.

Kim (Rhea Seehorn) e Jimmy (Bob Odenkirk)

Il discorso vale anche per i personaggi nuovi, inclusi i secondari. Per esempio Chuck, avvocato brillante ma affetto da una malattia che lo rende sensibile alle fonti di elettricità e il suo rapporto conflittuale con Jimmy. Oppure l’avvocato Kim Wexler, una donna intelligente e gran lavoratrice, amica e un po’ complice di Jimmy. O Nacho Varga, lo scagnozzo di Hector Salamanca, che sebbene lavori per i narcotrafficanti è disposto a tutto pur di proteggere i suoi cari. Ogni personaggio di Better Call Saul, che sia principale o secondario, ha un suo particolare carattere e una sua dimensione psicologica approfondita.

Nacho (Michael Mando) e Hector (Mark Margolis)

Concludendo

Vista la quantità spropositata di serie televisive che sono in circolazione, purtroppo non tutte di gran valore, è raro imbattersi in un prodotto di elevata qualità come questo. Quando finivo una stagione di Breaking Bad mi dicevo: «È impossibile che la prossima sia meglio di questa», e invece puntualmente mi ricredevo perché era un miglioramento continuo. Con Better Call Saul sta succedendo lo stesso: cresce di volta in volta. La mia unica speranza, al momento, è che venga rinnovato per una quarta stagione. Incrociamo le dita.


Aggiornamento del 27 giugno 2017: AMC ha confermato il rinnovo di Better Call Saul per la quarta stagione. Fonte: Variety.

Non ditelo allo scrittore: il nuovo romanzo di Alice Basso

È uscito da poco Non ditelo allo scrittore, il nuovo romanzo di Alice Basso edito da Garzanti. È il terzo libro con protagonista Vani Sarca, ghostwriter per una casa editrice e collaboratrice della polizia. L’anno scorso ho letto i due romanzi precedenti e quando ho saputo del nuovo volume l’ho preso e mi sono tuffata nella lettura.

Non ditelo allo scrittore di Alice Basso

Breve trama

In questo terzo capitolo, a Vani è affidata una missione complicata: trovare il ghostwriter che ha scritto Verrò a trovarti sul lago, un libro che ha fatto la storia della letteratura italiana. Quando infine riuscirà a rintracciarlo, si accorge che è incapace di comunicare e rendersi gradevole. Nel frattempo, il commissario Berganza chiede aiuto a Vani per scoprire in che modo un boss criminale agli arresti domiciliari riesca a comunicare con la sua banda.

Impressioni

Come nei due precedenti romanzi, la storia è raccontata in prima persona dalla voce di Vani. I capitoli della trama principale sono inframmezzati dai flashback in terza persona sul passato di Vani, ma non solo. Ho apprezzato questi salti nel passato perché sono funzionali alla storia. Non solo permettono di conoscere aspetti nuovi e dare ulteriore spessore ai personaggi, ma hanno anche il pregio di spiegare certe azioni del presente.

Ho ritrovato lo stile incalzante, scorrevole e divertente degli altri due libri: spesso ho perfino ridacchiato durante la lettura. Nonostante lo stile sia scanzonato, non mancano riflessioni più serie sull’amore, sui rapporti e sulla vita. Come negli altri due capitoli, tante sono le citazioni letterarie. Alice Basso, come Vani, nutre un amore viscerale per i libri.

Vani è un bel personaggio tridimensionale. La sua arguzia e le sue intuizioni la fanno somigliare a uno Sherlock Holmes donna. Nonostante si autodefinisca misantropa e affronti il mondo di petto, Vani capisce di dover cambiare. Il cambiamento graduale sarà determinato da diversi eventi, ma soprattutto da quelli che riguardano il commissario Berganza. Come lei, Berganza è un personaggio ben delineato e in questo libro acquista maggiore profondità. Anche il suo rapporto con Vani, un misto di complicità fra amici e di attaccamento paterno, si evolve e si approfondisce.

Il bello di questo romanzo è che anche i personaggi secondari e quelli nuovi sono tutti tratteggiati magnificamente. Si riesce quasi a vederli e a sentire la loro voce. Dalla piccola Morgana, che Vani definisce sua fotocopia in miniatura, alla redattrice neoassunta Olga, dal carattere gentile ma succube di Enrico, il direttore della casa editrice, materialista e sempre pronto a fiutare un affare, all’indisponente professor Marotta, il ghostwriter che Vani ha il compito di rendere più malleabile.

Senza rivelare il finale, devo dire che mi è sembrato in linea con tutto il libro e i due precedenti. Non ho idea se Alice Basso abbia in mente di scrivere ancora di Vani. Da lettrice sarei felice anche se la storia dovesse terminare qui, proprio perché il finale così com’è mi sembra perfetto.

Voto complessivo: 9

13 Reasons Why: perché la serie e il libro sono da evitare

La settimana scorsa ho visto Tredici (13 Reasons Why), incuriosita dal clamore che ha suscitato. La serie è approdata su Netflix il 31 marzo 2017 e i protagonisti sono Clay Jensen (Dylan Minnette) e Hannah Baker (Katherine Langford). La serie è tratta dal romanzo Tredici di Jay Asher, pubblicato nel 2008 da Mondadori (traduzione di Stefano Borgotallo).

Poster della serie Tredici (13 Reasons Why)

Sebbene l’idea di fondo sia originale – prima di suicidarsi, una ragazzina invia sette audiocassette alle tredici persone che lei ritiene responsabili della sua morte – ho trovato la serie di una banalità e di una superficialità imbarazzanti.

Le mie considerazioni, fra serie e romanzo

A mio avviso, il problema più grave è che Hannah, la ragazzina suicida, non suscita un briciolo di empatia. Anzi, è proprio antipatica e da prendere a sberle. In alcuni punti chiave della storia le sue azioni sono stupide e irrazionali. Sai che un tuo compagno di scuola è un violento che ha fatto del male a una tua amica? Ebbene, che aspetti a denunciarlo? E invece no, non solo non lo denuncia, ma i suoni della festa che lui dà a casa sua l’attraggono come «un canto di sirena».

L’aspetto più sconcertante è che il suicidio di Hannah non è l’ultimo atto disperato di una lunga depressione. No, è un atto di vendetta contro le persone che l’hanno trattata male. Altrimenti perché scomodarsi a registrare le cassette per i responsabili con un tono fra il sarcastico e sprezzante? Il suicidio per vendetta è una motivazione che non sta in piedi.

Clay (Dylan Minnette) e Hannah (Katherine Langford)

In secondo luogo, i dialoghi sono spesso noiosi e vuoti. Per esempio: «Pensi a Hannah?», «Secondo te?», dialoghi del genere non comunicano nulla e devono essere banditi. Molte scene potevano essere più brevi o addirittura tagliate del tutto. La storia non sempre è credibile (per esempio, i genitori vedono il figlio tornare a casa tumefatto e si preoccupano a malapena) e vuole affrontare tante questioni delicate – il cyberbullismo, la violenza sessuale, il suicidio – senza approfondirne neppure una. Alcuni personaggi ricadono nei soliti cliché: il giocatore di baseball ricco e spregiudicato, la cheerleader popolare, il ragazzo impacciato ma sensibile, per dirne alcuni.

Copertina di Tredici di Jay Asher

Finite le tredici puntate ero delusa, ma mi sono detta: «Proviamo a leggere il libro dal quale è tratta la serie, magari è meglio». E invece, sorpresa, il libro è illeggibile. Non c’è suspance, lo stile è sciatto e sembra scritto da un bambino. Va bene che parla di ragazzini, ma poteva essere più curato. Peraltro, il problema dei personaggi cliché bidimensionali si ritrova anche nel romanzo.

Non avrei mai pensato di dirlo ma la serie, con tutte le sue pecche, è meglio del libro. Poi, se vogliamo aggravare il tutto, credo che il messaggio trasmesso da libro e serie sia quanto di più diseducativo e fuorviante per gli adolescenti.

Perciò la serie è deludente, il libro pure, mi rimane una domanda: perché prodigare tutti questi sforzi in un prodotto così mediocre? Non credo che avrò mai una risposta. In ogni caso, la serie è stata già riconfermata per la seconda stagione. Io non credo che la guarderò.

Torture Garden volume 3, Il patto dei fiammiferi – Il finale della miniserie

«Noi siamo il Torture Garden. Nei nostri ricordi, nei nostri incubi, sulle cicatrici che portiamo addosso è inciso il nostro passato. È come un demone, che vivrà per sempre dentro di noi.»

“Il patto dei fiammiferi” è il terzo e ultimo volume della miniserie Torture Garden. Nei mesi scorsi, ho avuto il piacere di parlare del primo e del secondo numero. La storia è firmata da Barbara Baraldi mentre i disegni sono di Rossano Piccioni, Simone Delladio e Sofia Terzo. La copertina è di Arturo Lauria.

Copertina dell’ultimo numero di Torture Garden, “Il patto dei fiammiferi”.

Breve recensione

Nell’albo precedente avevamo scoperto qualcosa in più sul passato di Annie e Travis. Entrambi orfani, vivevano nell’orfanotrofio gestito dalla signora Woland. Sia loro che gli altri bambini erano costretti a subire ogni tipo di vessazione, finché un giorno hanno deciso di sistemare la faccenda uccidendo la Woland, le sue complici e dando fuoco all’orfanotrofio. I bambini decidono di separarsi, di inventarsi una nuova identità e di non cercarsi mai più. Affronteranno da soli il male che li tormenta, ma se questo demone dovesse prendere il sopravvento, potranno ricongiungersi per affrontarlo insieme. Questo, in sostanza, è il “patto dei fiammiferi”: il momento cruciale che avvia tutto. Nel frattempo, il Suturatore, l’assassino che conosce il segreto, sta uccidendo tutti i sopravvissuti dell’incendio e si avvicina pericolosamente a Travis e Annie.

Nell’ultimo episodio, emerge ancora una volta l’impossibilità di venire a patti con il passato. Nonostante i bambini siano scappati dall’orfanotrofio, il male subito in quegli anni condiziona ancora le loro vite. È il passato che determina la loro natura e le loro azioni. È un «gioco al massacro», per citare il testo, poiché non hanno potuto riscattarsi con una nuova vita ed emergere da quell’oscurità che li aveva avvolti per anni, negandogli l’innocenza. Anche la vendetta è un tema dominante di questo episodio: la chiave di lettura del mistero che lega il Suturatore a Travis e Annie. La conclusione lascia un retrogusto amaro, ma è comunque perfetta.

Torture Garden è una bella serie. Il merito non va solo all’autrice che è stata capace di creare un giallo avvincente dal sapore horror, ma anche agli illustratori che con i loro disegni hanno dato vita ad atmosfere inquietanti che si sposano magnificamente alla storia.

Voto complessivo: 9

Dave Gahan: «“Perché la vostra musica è così deprimente?” è una domanda davvero sciocca»

Questa è la mia traduzione di “Tell Me About It: Dave Gahan – “‘Why is your music so depressing?’ is a really lame question” di David Zammitt pubblicato su Loud and Quiet il 26 aprile 2017.


Il cantante dei Depeche Mode parla di concerti schifosi, di dipendenza da sostanze e della morte scampata per due volte.

Dave Gahan si è piazzato nel seminterrato dell’elegante Bulgari Hotel a Knightsbridge. Mentre aspetto fuori dalla sua stanza nel purgatorio dei giornalisti musicali, in attesa di un’intervista insieme a un altro periodico, mi dicono che non dovrebbe mancare molto. Invece, purtroppo, a Dave piace talmente tanto chiacchierare che vuole continuare a farlo. Forse andremo d’accordissimo, penso.

Quando infine mi fanno cenno di entrare, Gahan mi dà il benvenuto nella sala riunioni che per quella giornata è diventata il suo ufficio. È cordiale, prodigo di sorrisi, e mi offre persino un frullato. Di colore verde radioattivo, è un segno del viaggio di Gahan dai giorni oscuri di fine anni ’80 e, be’, buona parte degli anni ’90. Bisogna dire che le richieste particolari di un uomo che è sopravvissuto alla dipendenza da eroina e a un tumore alla vescica oggi sono un po’ diverse. Con i capelli lisciati all’indietro, i baffetti ben curati e un anello d’argento a forma di teschio posato sulla nocca centrale, è difficile identificarlo con il ragazzo diciannovenne di Epping vestito in abiti troppo larghi che balla nervosamente in “Just Can’t Get Enough”.

Naturalmente, parecchia acqua ben documentata è passata sotto i ponti da quando Gahan e i Depeche Mode sono arrivati con Speak & Spell nel 1981, album che ha stabilito i criteri del synthpop. Quattordici album in studio sono di per sé una conquista piuttosto solida, ma quando si conosce il contesto delle difficoltà superate per poterci arrivare, l’impresa suscita maggiore interesse. Fra salute cagionevole, abuso di sostanze e un paio di scontri con la legge, i Depeche Mode sono riusciti in qualche modo a restare uniti. Nonostante gli alti caotici e i bassi di fiacca creativa, la pubblicazione dell’ultimo LP, Spirit, prosegue la marcia di almeno un album ogni quattro anni, negli ultimi trentacinque. Incredibilmente, i Depeche Mode sono diventati una delle forze più affidabili della musica britannica.

Gahan parla in staccato, con molte pause e frasi brevi sparate a raffica, e svolazza di argomento in argomento. Avrei potuto lasciare a casa il mio ordinato foglio A4 con le domande, perché dico a malapena una parola. Saltando a rotta di collo nei primi cinque minuti dal recente concerto alla Barrowlands di Glasgow ai pregi del teatro e all’etica dietro il sound “deprimente” dei Depeche Mode, a 54 anni Gahan è traboccante di energia. Anche se può essere dura restare al passo con lui, la passione di Gahan è il filo conduttore che tiene unita la chiacchierata.

Dave Gahan. Foto di Anton Corbijn

La Barrowlands è un luogo vecchio, sporco e puzzolente

«Non ne sono rimasti molti di luoghi simili. Abbiamo suonato là per il festival di BBC 6 Music, ma ci avevamo già suonato agli inizi degli anni ’80 – qualcuno mi ha detto che era il 1984. Ricordo che a suo tempo era piuttosto ondeggiante. Il palco si muove un po’ perché il pavimento si muove. Perciò, quando comincia…

È stato divertente fare quel concerto la settimana scorsa, che è durato un’oretta. Più breve delle due ore di concerto che facciamo di solito. Bobby Gillespie mi ha scritto un paio di SMS dicendomi: “Durata perfetta”. Per esibirsi, un’ora è la durata perfetta.

Abbiamo trascorso due bei giorni a Glasgow. Se ti trovi in Inghilterra, Scozia o Irlanda e se c’è bel tempo, riesci davvero a vedere la bellezza di questi luoghi. E adoro la gente di quelle parti. Le persone in albergo e per la strada, ovunque. Brava gente!»

“Perché la vostra musica è così deprimente?” è una domanda davvero sciocca

«Di recente ho visto la pièce Buried Child di Sam Shepard. Adoro tutte le opere di Sam Shepard. Solitamente sono ambientate nel cuore dell’America e mostrano com’è realmente, non il sogno americano. Buried Child parla di un bambino indesiderato che è finito sepolto nel giardino e perseguita i familiari, spiritualmente. Perciò, è il tormento costante in qualunque cosa facciano nelle loro vite ubriache. Alcuni dicono che è una storia miserabile, ma le storie come questa, secondo me, sono la vita vera.

Una delle domande alle quali ho risposto un’infinità di volte è questa: “Perché la vostra musica è così negativa?”. Innanzitutto è una domanda sciocca, ma la risposta è sempre la stessa: “Be’, secondo me non è vero”. Non l’ho mai percepita così, neppure adesso. Capisco che alcuni degli argomenti siano tetri, musicalmente può essere dark, ma ho sempre sostenuto che se il testo è oscuro e se ci addentriamo in uno strano luogo cupo, c’è anche una melodia, un sound o altro che ti riporta fuori. Come in un buon libro, o in un film, c’è una storia dietro.

Tendo a soffermarmici parecchio. E non c’è niente di male perché ritengo che sia l’unico posto nel quale puoi trovare una luce vera. Devi scavare a fondo, perché in tutte queste stronzate di superficie – questa roba [alza l’iPhone e lo agita] – noi sprechiamo tempo.»

Ci interessano ancora le recensioni

«Certo che ci interessano. Tanto tempo fa, qualcuno mi ha detto che la particolarità delle recensioni è che se credi a quelle positive, devi credere anche a quelle negative. C’è sempre qualcosa di valido in entrambe e comunque sono tutte opinioni.

Ho letto una recensione del concerto alla Barrowlands che mi è piaciuta. Questa persona recensiva l’atmosfera e le sensazioni vissute in quel momento e che cosa ha provato. Ed era incontestabile! Se avesse detto altro su quella serata, per esempio che non gli piacevano le mie scarpe, sarebbe stato ridicolo perché è stata una serata speciale. Ma non va sempre così, credimi!

Capita che la mattina mi diano un giornale mentre partiamo per il prossimo concerto. Magari so che abbiamo fatto uno show di merda la sera prima, che non è andato benissimo. Oppure che era sottotono e qualcuno se n’è accorto. Quindi leggo la recensione e penso: “Ma vaffanculo!”. Non sono tutte gemme. Nel corso degli anni capisci che [a volte] c’è una sensazione speciale, ci scambiamo un’occhiata ed è come se fluttuassimo nell’aria, ma il più delle volte sono nel bel mezzo di una canzone e penso a qualcos’altro. Be’, no, non il più delle volte. Però, spesso e volentieri, verso la fine dello spettacolo, mi domando se in hotel ci sia il servizio in camera.»

Depeche Mode. Foto di Anton Corbijn

Ricordo di avere scagliato sei o sette bottiglie di vino contro il muro perché non potevo bere

«Una volta abbiamo deciso di non andare in tournée ed è stato con l’album Ultra [1997], perché non ero sufficientemente in forma. Ho cercato di convincere tutti del contrario, avevo tante buone intenzioni, però, mettiamola così: dopo sei mesi di registrazione dell’album, dopo un’importante sessione a New York, sono tornato a Los Angeles, è successo un casino e sono finito in galera [Gahan è stato arrestato per essere finito in overdose da speedball al Sunset Marquis Hotel nel 1996]. Perciò è stata un’ottima decisione.

Dopo quell’album abbiamo pubblicato un greatest hits, nel 1998 mi pare. Abbiamo fatto qualche concerto. Per me è stato il migliore e il peggiore tour mai fatto perché non c’ero proprio in nessuna di quelle esibizioni. Era tutto nuovo per me. Non bevevo più alcol e non mi facevo più di droga, ero una sorta di ferita aperta, un fascio di nervi, cercavo di tenere duro finché non ce l’avessi fatta. Non avevo alcun interesse a starmene in viaggio e ho avuto qualche momento critico nei camerini. Ricordo di avere scagliato sei o sette bottiglie di vino contro il muro perché non potevo bere. Erano destinate a me, ma se non potevo berle allora tanto valeva che finissero contro il muro. C’erano anche gli altri della band nel camerino. Dev’essere stato spaventoso, ora che ci penso. Non ero felice all’idea di rimanere sobrio e di doverlo fare per sempre se volevo continuare a vivere. Ormai sono passati quasi vent’anni, cosa di per sé incredibile, anche se il percorso non è stato privo di scossoni. Mi ha davvero aperto la mente, più di quanto potessero fare la droga o l’alcol.»

Fisicamente non riuscivo a cantare per più di cinque minuti

«Ricordo di essere tornato a casa a Los Angeles dopo l’arresto. Ho ricevuto una telefonata – io non ho risposto – da parte di Martin [Gore]. Era indispettito e incazzato per il fatto che eravamo nel bel mezzo della registrazione di un album e io non potevo lasciare Los Angeles per altri due anni. Se mi fossi cacciato nei guai, sarei finito in galera. Perciò hanno continuato a lavorare, hanno creato sessioni apposite per quando sarei potuto uscire dal posto nel quale ero entrato. Ci sono rimasto sei mesi. Ero terrorizzato all’idea di tornare a casa perché sapevo cosa avrei fatto. Ho stretto ottime amicizie laggiù, sono tornato in studio con qualcuno che mi sorvegliava, ma che mi ha salvato la vita.

Non riuscivo a cantare. Dico fisicamente, non riuscivo a cantare per più di cinque minuti. Non era affatto bello. Durante la prima fase di realizzazione dell’album ci sono stati momenti nei quali pensavo di andare bene, ma probabilmente ero sballato. Al microfono pensavo di essere Frank Sinatra, poi mi riascoltavo e dicevo: “Oddio!”. Mi hanno fatto lavorare con una coach vocale, Evelyn. Poiché ero veramente uno stronzo a suo tempo, lei avrebbe lavorato con me solo se fossi andato in chiesa con lei a Los Angeles, in una zona malfamata a Inglewood, in un posto dove lei ogni domenica lavorava con il coro. Diceva: “Vieni con me e canta con il gruppo. Devi far parte di un team!”. Era simpatica e gentile con me, mi ha dedicato un sacco del suo tempo. Mi ha ridato la voce. Alla fine abbiamo completato l’album.»

Mia moglie mi ha chiesto: “Per quale motivo guardi le immagini del tuo tumore?”

«Durante la realizzazione di Sounds of the Universe [2009] non mi sentivo in forma. Ero quasi sempre spossato. Avevo energie a sufficienza per affrontare le sessioni in studio, ma poi tornavo a casa la sera e dicevo a mia moglie che ero stanchissimo. Mi addormentavo alle nove di sera, ma nessuno ne sapeva niente. Poi, quando mi hanno fatto la diagnosi, ho capito tutto.

Ero solito dire a Jen, mia moglie: “Non so se riuscirò a fare questi concerti”. Eravamo ad Atene, avevo un dolore lancinante all’intestino. Sembrava l’intestino, ma non lo era. Quella sera è arrivato il dottore in camerino, cinque minuti prima di salire sul palco. Vomitavo spesso, ma non lo avevo detto a nessuno. C’erano tracce di sangue nelle urine, anche questo non l’avevo detto a nessuno. Pensavo fosse per lo stress e il logorio.

Mi hanno portato di corsa in ospedale e mentre il medico eseguiva l’ecografia ha guardato me e poi lo schermo. Gli ho detto: “So che non aspetto un bambino!”. E lui: “Be’, vedo qualcosa e devo chiamare qualcuno per accertamenti”. Quindi ho detto: “Cosa vede?”. E lui: “Vedo un’ombra”. L’ho sentito dire nei film. Per fortuna c’era un oncologo, mi hanno fatto una risonanza magnetica e mi hanno detto che avrebbero potuto operarmi subito. C’è una sacca nella vescica, poi ancora un’altra sacca in quella interna, e il tumore non era ancora uscito dalle pareti. Era fantastico da guardare! Mia moglie mi ha chiesto: “Per quale motivo guardi le immagini del tuo tumore?”. Secondo me somigliava a un riccio di mare con tutti i tentacoli alieni! Una cosa straordinaria. Ma se non viene diagnosticato e si diffonde negli altri organi, sei spacciato.»

Fingiamo il contrario, ma siamo fottutamente perduti!

«Spirit è più che altro uno sguardo sociale sull’umanità in sé, e siamo proprio perduti. Fingiamo il contrario, ma siamo fottutamente perduti! Questo disco è in parte apocalittico e in parte post-apocalittico. “Cover Me” è post-apocalittica, “Fail” parla del presente, in “Poison Heart” intendo dire che “sei il demonio e lo sappiamo tutti, ma sei tu che hai il potere!”. E poi ci sono canzoni come “Going Backwards” e “Scum” che esprimono il terrore per l’umanità, per noi stessi.

Dov’è lo spirito? Dov’è quello spirito che ci fa interessare a qualcosa? La gente dice: “Per voi è facile parlare, vivete nelle vostre case lussuose”, ma Martin ha detto che anche se abbiamo avuto successo, non significa che smettiamo di preoccuparci di quello che vediamo e percepiamo. Facciamo del nostro meglio. Possiamo ritrarre quello che sentiamo attraverso la musica, l’arte. In fin dei conti, sì, siamo qui per intrattenervi ma magari facendovi riflettere. Non è un disco che vuole imporvi un’idea a tutti i costi. Non siamo mica Billy Bragg.»

« Articoli meno recenti Articoli più recenti »

© 2024 Barbara Salardi

Tema di Anders NorenSu ↑